Sanità Futura (Associazione Pazienti e Strutture Sanitarie di Puglia e Basilicata) parla chiaro: la povertà pesa sulle cure per la salute.
Ecco i dati del “Rapporto 2018 – Donare per curare: Povertà Sanitaria e Donazione Farmaci” riportati da Michele Cataldi, presidente di Sanità Futura:
“A causa di spese più urgenti (perché non rinviabili), le famiglie povere destinano alla salute solo il 2,54% della propria spesa totale, contro il 4,49% delle famiglie non povere.
In particolare, possono spendere solo 117 euro l’anno (con un aggravio di 11 euro in più rispetto all’anno precedente), mentre il resto delle persone può spendere 703 euro l’anno per curarsi (+8 euro rispetto all’anno precedente)”.
Nella nota si parla, inoltre, di:
“Un servizio sanitario che non è certamente quello che vogliamo e per il quale lavoriamo quotidianamente e con le ben note difficoltà create dai tetti di spesa imposte alle nostre strutture.
Per le famiglie indigenti, inoltre, la quota principale della spesa sanitaria è destinata ai medicinali: 12,30 euro mensili, pari al 54% del totale.
Il resto delle famiglie destina ai farmaci solo il 40% della spesa sanitaria, perché investe maggiormente in prevenzione.
In tal senso, è particolarmente sintomatica le spesa delle persone in stato di indigenza per i servizi odontoiatrici: 2,35 euro mensili, contro 24,83 euro del resto della popolazione.
Non è un caso che la cattiva condizione del cavo orale sia diventato un indicatore dello stato di povertà (economica e culturale).
La strategia del risparmio coinvolge 5,66 milioni di famiglie e 13,7 milioni di individui, configurandosi come un vero e proprio comportamento di massa.
Nel triennio 2014-16 la percentuale di italiani, tra le famiglie non povere, che ha limitato il numero di visite e accertamenti è passato dal 24 al 20%.
La quota, invece, è aumentata tra le famiglie povere, passando dal 43,4% al 44,6%.
Nonostante questa strategia di contenimento della spesa sanitaria a proprio carico, i dati ufficiali indicano una progressiva divaricazione tra la spesa pubblica (in riduzione) e quella privata (in aumento).
In particolare, la quota di spesa per assistenza farmaceutica non sostenuta dal Servizio Sanitario Nazionale e a carico totale delle famiglie sfiora il record storico, passando al 40,6% rispetto al 37,3% dell’anno precedente.
Sono questi i dati che rafforzano il nostro impegno a proseguire, nonostante tutto, il processo di alta interlocuzione tentando di superare definitivamente pregiudizi e luoghi comuni.
I policy maker e il management del SSR di una regione che registra circa 40 milioni di saldo passivo (emigrazione sanitaria) l’anno tendono da sempre a sottovalutare i ‘consumi sanitari privati’ come possibile risorsa per una risposta ai bisogni collettivi.
Ad esempio, quasi il 40% delle visite specialistiche (a livello nazionale) sono out of pocket: un mercato che spesso è totalmente scollegato dai percorsi dei pazienti che si trovano, quindi, ad auto-organizzarsi.
Bisogna innanzitutto uscire dalla retorica politica e ‘sdoganare’ il ruolo effettivo che i consumi sanitari privati hanno nel rispondere ai bisogni di salute.
Al di là della qualità delle cure ricevute da chi riesce ad accedere al sistema, il tema dell’equità viene affrontato solo a livello superficiale nell’opinione pubblica e in maniera marginale nelle discussioni tecniche, dove prevale il tema della lotta alle inefficienze.
Dobbiamo diventare, per dirla con le parole di Ghandi, il cambiamento che vogliamo vedere.
In tempi di tagli alla spesa sanitaria, bisogna intervenire con idee chiare e con coraggio, per spostare risorse da dove sono più cospicue e meno necessarie a dove sono più necessarie, eliminando sprechi ed inefficienze.
Per questo riponiamo tante attese positive nella crescita di una cultura dell’imprenditoria sociale e crediamo che l’impresa sociale possa essere un agente di innovazione importante per i sistemi di welfare.
Organizzare la solidarietà per prendersi cura dell’altro; sviluppare forme di impresa di comunità per rispondere ai bisogni sociali e gestire beni comuni è una grande sfida per il terzo settore, ma è anche un’occasione per reinventare radicalmente la ‘funzione pubblica’ in questo Paese.
Organizzare queste attività in forma d’impresa è anche un modo per mettere immediatamente tutto il sistema di welfare davanti alla necessità di misurare efficacia ed efficienza, e quindi anche la sostenibilità economica e gli impatti sociali”.