Questo il testo testo dell’omelia che mons. Antonio Giuseppe Caiazzo, Arcivescovo di Matera-Irsina, ha pronunciato questo pomeriggio alle 17:00 nella Cattedrale di Matera per l’apertura dell’anno giubilare:
“Carissimi, fratelli e sorelle, istituzioni civili e militari, confratelli sacerdoti, diaconi, religiosi e religiose, anche noi, come Chiesa di Matera-Irsina,
abbiamo dato inizio ufficialmente alla celebrazione del giubileo del 2025 con il rito introduttivo della statio presso la chiesa di S. Francesco d’Assisi e la breve processione verso la Basilica Cattedrale.
Nel cammino dell’anno liturgico, la Domenica subito dopo il S. Natale di Gesù, la Chiesa celebra la solennità della S. Famiglia.
In questo anno l’episodio del pellegrinaggio della famiglia di Nazareth al tempio di Gerusalemme ci presenta la conclusione dei racconti dell’infanzia di Gesù.
Un Gesù che già a 12 anni mostra una libertà che gli deriva dal suo rapporto con il Padre, che viene prima dell’affetto dei propri cari.
Secondo la tradizione giudaica il dodicesimo anno era legato all’usanza del bar mitsvah (il figlio del precetto).
La Bibbia ci ricorda che a quell’età Samuele cominciò a profetizzare (1Sam 3) e Daniele pronunciò una sentenza molto saggia (Dan 13).
La famiglia di Nazaret, soprattutto ai nostri giorni, viene riproposta come il modello delle famiglie cristiane, anch’esse ormai impastate con altri modelli che sono esattamente il contrario della proposta evangelica.
La famiglia cristiana si costruisce sulla Parola di Gesù, la roccia che impedisce a venti, alluvioni, terremoti che si abbattono su di essa di farla crollare.
C’è bisogno di tanta misericordia.
In questa logica cerchiamo di capire cosa significa il termine “Giubileo”.
Deriva dall’ebraico “yobel”, che era il corno di montone che veniva suonato per annunciare l’inizio di un anno speciale.
Nella nostra tradizione cattolica ha assunto un significato più profondo.
Non a caso lo definiamo come un tempo di grazia e misericordia, un’occasione unica per riconciliarsi con Dio e con il prossimo.
Abbiamo un simbolo centrale di questo percorso rappresentato dalla Porta Santa.
Passare attraverso di essa significa compiere un gesto di affidamento a Cristo e di rinnovamento interiore.
Quest’anno è stata aperta da Papa Francesco la porta della Basilica di S. Pietro.
Nelle Chiese particolari, come la nostra Arcidiocesi, ci sono diversi luoghi da me indicati con Decreto apposito che già da tempo hanno ricevuto tutti i sacerdoti, incominciando da questo luogo che è la Basilica Cattedrale, per celebrare l’Anno Santo.
La valenza spirituale della Porta, in ambito cristiano, è presentata con la cosiddetta Porta Santa che è Gesù Cristo: “Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore.
Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati.
Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (Gv 10, 7).
E’ l’anno della speranza: siamo tutti chiamati ad essere viandanti di speranza e come lo stesso Papa Francesco nella sua omelia del 24 Dicembre ci ha ricordato: “Con l’apertura della Porta Santa abbiamo dato inizio a un nuovo Giubileo: ciascuno di noi può entrare nel mistero di questo annuncio di grazia.
Questa è la notte in cui la porta della speranza si è spalancata sul mondo; questa è la notte in cui Dio dice a ciascuno: c’è speranza anche per te!
C’è speranza per ognuno di noi”.
Ribadisco in questa occasione quanto ho avuto modo di scrivere nella lettera pastorale che “La Chiesa per prima, in particolare nella nostra terra di Basilicata, deve essere capace di mostrare il suo dolore, gridarlo a Dio al solo scopo di ritornare a vivere e far vivere, attraverso un contagio d’amore, la condizione della condivisione nella quale i fratelli siano sempre vittoriosi e gioiosi di percepire quel legame.
E questo perché di una cosa siamo certi: dalla propria malattia, dal proprio dolore si ritroverà forza e sarà risurrezione.
Oggi, ancora una volta, come Chiesa nel nostro territorio di Matera-Irsina, siamo chiamati a guardare le tante mani inaridite, le tante paralisi spirituali, la disperazione dalle tante grida di dolore a causa di ingiustizie, per essere sanati dalla presenza viva e reale di Gesù nell’Eucaristia che ci dice di tendere a lui tutte le mani.
Questa è la nostra speranza.
Speranza che «nasce dall’amore e si fonda sull’amore che scaturisce dal Cuore di Gesù trafitto sulla croce» (FRANCESCO, Spes non confundit, 1).
In questo nostro tempo, a Matera come a Tricarico, a Roma come in qualsiasi altro posto del mondo, ben conoscendo le nostre debolezze e rispondendo all’invito di Gesù risorto, ci mettiamo, come Chiesa, a servizio di questa umanità che riscopriamo fragile, annunciando la speranza della misericordia attraverso quella pazienza tipica del contadino nel dissodare il terreno, seminare, attendere, trebbiare, qualsiasi altro tipo di lavoro che richiede sempre tempo, come lo richiede ogni crescita e tessitura.
Un servizio, il nostro, che deve mettere da parte calcoli, titoli e convenienze, aprendosi alla novità di Dio che ci meraviglia sempre, rendendo feconda la Chiesa e rispondendo come la Vergine Santa: “Eccomi”.
Un “Si” che si rinnova nel tempo e nella diversità ministeriale.
Il Giubileo diventa così, per le nostre Chiese di Matera-Irsina e di Tricarico (MT), una ulteriore opportunità per essere propositivi.
Mi spiego.
Per la nostra gente e il nostro territorio non c’è solo bisogno di denunciare le criticità, le problematiche, le paure e le sofferenze.
Questo lo sappiamo fare tutti.
C’è bisogno di proposte concrete, e di progetti da realizzare e concretizzare al più presto in opere.
Ognuno è chiamato ad emergere dal pantano delle lamentele spesso sterili e strumentali, facendo proposte concrete.
Le idee, ne sono certo, non mancano.
Bisogna sposarle perché diventino realtà.
Proposte che devono venire dal basso, incominciando dai giovani, dalle giovani coppie, dal mondo imprenditoriale, dalla cultura, dalla Chiesa.
Le idee superano gli steccati politici e ideologici.
Purché si lavori per il bene comune e non per ottenere consensi.
Tra i tanti campi dove seminare speranza c’è quello delle nuove generazioni.
È il campo educativo che semina e va seminato a più mani: famiglia, scuola, gruppi, aggregazioni, Chiesa: tutti coinvolti, avvertendo la responsabilità e l’urgenza.
Ma di campi dove seminare la speranza ce ne sono tanti.
Siamo circondati, anzi spesso anche noi stessi abbiamo bisogno che qualcuno semini la speranza nel nostro terreno perché porti frutto.
Ogni semina che rispecchia le opere di misericordia spirituali e corporali sana le ferite del cuore, rinfranca le ginocchia dell’umanità sofferente.
La Chiesa, attraverso i suoi figli, nella sapienza ricevuta da Dio per opera dello Spirito Santo, sa benissimo che dare da mangiare a chi è nel bisogno e nella necessità vuol dire nutrire quanti si sentono fragili perché abbandonati e pieni di paura.
Così come dare da bere a chi ha sete significa, ai nostri giorni, fermarsi, dedicare tempo e ascoltare chi è solo, chi ha lasciato la sua terra in cerca di un mondo migliore, diverso.
Tutto questo significa riaccendere la speranza e mostrare il volto del Dio di Gesù Cristo che provvede alle necessità primarie dei suoi figli.
Non c’è gioia più grande di quando si restituisce dignità alla persona ammalata nel cuore, nella mente, nel corpo, aiutandola a liberarsi dal peso dell’errore che ha commesso.
Eppure spesso anche noi che celebriamo l’Eucaristia, la misericordia di Dio, mostriamo l’apparenza di una fede mascherata da forme devozionali che mettono a tacere quanto la coscienza ci rimprovera o teme.
Auguro a tutti noi di vivere quest’anno cercando la grazia di Dio e, sotto l’azione dello Spirito Santo, di camminare con Maria e Giuseppe ascoltando la Parola di Gesù.
Così sia”.